CRONACHE DAL PICCOLO NULLA 
di 
Eterodossi


Capitolo 1 - Alain

Mi sveglio del tutto. Sono in un letto a due piazze, sotto una coperta blu scuro. La stanza è in penombra fuori dal fascio del faretto che mi acceca.

Con la mano destra mi riparo gli occhi.
Ehi! Un momento. La mano destra! C'è, in tutto il suo splendore. E funziona!
Mi sollevo sul  letto.
Oddiodovesono. 
Calma, devo cercare di capire. Non ci sono medici o infermieri in vista, non sono legato, non mi fa male tutto. Sono solo leggermente indolenzito, faccio un po' di fatica a muovermi. Mi sembra di svegliarmi da un sonno di secoli, ma, tutto sommato, sto bene.

Ho la sensazione di essere solo, in questa stanza che comincia a prendere forma davanti ai miei occhi. Rimango per qualche istante immobile. E' un luogo sconosciuto per me. Anche il corpo mi sembra sconosciuto. No, decisamente non è il mio.
Poi sento un singhiozzo! Allora non sono solo! Guardo con più attenzione. Ora focalizzo due figure al buio vicino al vano nero di una porta!
Non mi allarmo, come potrei?, sono solo due donne, non giovani, si direbbe. Una alta e bionda, l'altra una vecchina rincalcagnata. Madre e figlia? Piangono in silenzio, a fiume, i fazzoletti premuti sulla bocca... Con una certa fatica mi tiro su nel letto caldo. Mi sento al sicuro, è una grande stanza da letto, librerie, giradischi, libri, un PC, appendiabiti. Ora che mi concentro sulle due donne, mi rendo conto che piangono un po' sommesse, in lunghi lamenti di singhiozzi, non piangono di dolore.
"Alain..." Dice la nonna e subito quella alta aggiunge: "Pina..." le gote lisce sono lucenti di pianto, ma sorride, parla a labbra tremanti accese in un lungo sorriso "... andiamo di là, piano, andiamo a sedere, piano...".
Escono nel buio di quello che sembra essere un corridoio, e spariscono in un pianto trattenuto. Piangono in coppia in un'altra stanza, dicono cose che non sento. 

Aspetto un poco, poi mi alzo. Le gambe non mi obbediscono bene,  ma entro rapidamente nella cabina di comando. Mi secca un po' lasciare il caldo del letto. Pavimento in marmo, testiera imbottita in turchese. Casa padronale, di ricchi. Infilo le pantofole. Zoppico un po' in giro. A me il bagno, uno specchio!
Zoppico in corridoio, al buio, la prima porta a destra è quella di un bel bagno piastrellato. Mi colpisce, ma sono ansioso di mettermi davanti allo specchio.

Non so che cosa mi aspettassi di vedere. Già avevo percepito che questo corpo in cui mi muovo non è il mio. Ma non ne avevo preso atto, fino al momento in cui lo specchio mi rimanda l'immagine di uno sconosciuto: un uomo sulla trentina, capelli brizzolati radi e lunghi, alto circa un metro e settantacinque. 
Un esame più approfondito mi svela che ho i denti piccoli e gialli, le dita macchiate di nicotina; le prove che sono un forte fumatore. Ho delle cicatrici sulle gambe, sono abbastanza in forma, ma quello zoppichìo non passa, devo avere qualcosa di storto nel piede destro: è solo un'andatura anomala, niente di grave. Caccio a fatica un paio di bestemmie, e allora mi accorgo che ho una fonazione che non riesco a piegare, parlo con la r moscia, anzi la evve.
Oh povca troia!!! Che cazzo ha combinato Ivanovic?

Mi devo vestire, devo chiarire la situazione.

Rovisto in camera. Ci stanno un sacco di dischi dei Beatles e Dire Straits, una fortuna. Libri sul cinema, l'agenda del giornalista '94, '95 e '96. Trovo un grosso serramanico e lo ficco nella tasca dei jeans. I miei jeans. I jeans del mio corpo sanno un po' di naftalina.

Rovisto meglio, con l'orecchio teso all'arrivo di novità. Trovo un sacco di accendini, inguattati ovunque, un bel guardaroba, in particolare camicie molto raffinate.
Poi mi avventuro nel resto della casa: nel tinello illuminato, le vecchie sono sole. Già il corridoio era pieno di foto appese ai muri, ma quando sbuco in salone c'è un'apoteosi di mie immagini. Quadri, foto, collage. Io da piccolo, io da ragazzo. Vestito da torero a un carnevale, in smoking a una festa. Non sono io. Il mio attuale corpo ha già tutta un vita alle spalle e si chiama... lo trovo subito.
C'è una collezione di badge "STAMPA", "ACCESSO STAMPA": il mio corpo si chiama Alain Meltemi. Sono un giornalista. Su un tavolino c'è un mucchio di mie foto e ne deduco che la vecchia bionda e alta è mia madre. Una gran bella donna. Calcolo, dallo stile dei vestiti; che deve essere sulla settantina. Mentre mi aggiro in esplorazione, cominciano a filtrare dei concetti. Questa non è una casa, ma un luogo di culto. Alain è morto.

"Alain, ti serve qualcosa..." La voce alle mie spalle ha un forte accento francese Squadro la testa bionda che sbuca dalla porta accostata. Deve essere una donna molto forte per venire a parlare col corpo del figlio redivivo.
"No, no, tovna di là..." bofonchio. Non riesco a parlare meglio di così, dovrò fare esercizio con la fonazione.
Sono perplesso, ma mi aggrappo a tre elementi. Non è un sogno. Ci deve entrare la mia natura empathica. Sono in un corpo non mio ma sono me stesso. Mi sento di escludere la possibilità di essere Alain Meltemi che immagina di essere resuscitato con l'anima di Lazar Jakovic, perché i miei ricordi portano il marchio della verità. Il ricordo del mio Unico Grande Amore è lì che continua a bruciarmi le viscere. Nessuno potrebbe inventarsi il mio rapporto con Demetra. C'entra qualcosa il prof.  Migliorini, il dannato MOMM. 

Ancora lui, sulla mia strada? E' da quando è iniziata la mia storia, quella della mia vita empathica, che quel fottuto figlio di puttana incrocia il mio destino. E non sono ancora riuscito a trovarmi a quattr'occhi con lui, per spaccargli la faccia come merita. Poi, magari, dopo, gli stringerei la mano, perché, in fondo, lo considero quasi un amico.

Ma che in questa storia c'entri MOMM  è una consapevolezza che non saprei motivare: lo so e basta.
Riprendo a girare per casa, a volontà: le vecchie continuano a piangere in salotto. Sussurrano tra loro. Preferisco non affrontarle, per non trovarmi immerso nelle loro effusioni. Cerco ancora. Mi trovo tra le mani dei faldoni con foto e pezzi carta. Foto mie, al mare. Foto della bionda in tuta e baschetto, diploma "la prima donna al Rally di Montecarlo". Scorro rapidamente fino alla fine. I testi dei messaggi di commiato dei miei amici. Alain è morto nel 1996. Suona il telefono. Salterei dalla finestra, se non ci fossero le inferriate: so per esperienza che quando mi sono trovato in situazioni che non  capivo, gli uccelli paduli arrivavano presto. La bionda parla piano:
"Gvazie, grazie, grazie... <pausa>  cevto, glielo dico subito. <pausa> deve uscive ova? <pausa lunga, sospiro> Va bene... grazie, grazie... "
Tramestio, vengono da me entrambe, la vecchia ha un fazzolettone sulla bocca - se piange ancora così si liofilizzerà.
"Alain..."
Non dico nulla.
"Alain. Hanno telefonato. Eva la dottoressa. Devi andare a parlavle. Subito. Davanti alla chiesa valdese a piazza Cavouv... Le chiavi della macchina stanno nel foyer, al solito posto, la macchina è pvopvio qui davanti..."
Chi è in ballo deve ballare. Ci vado. Indosso un cappotto lungo. Il portachiavi è Rover, prendo la Rover bianca. Ci metto un po' a fare manovra, non sono più abituato a guidare, ad avere l'uso di entrambe le mani. Ancora non mi sembra vero. Vado piano. Esco piano. Il civico recita: Via Cassia 553.

Guido nel normale traffico della sera romana. Mi scervello -  è pur sempre una mia specialità, no? - ma non riesco a raccapezzarmi. Sono in ballo,  allora ballo.

All'appuntamento trovo una donna, sulla quarantina. Mi da una busta senza dirmi una parola. La presenza di un paio di tizi lì vicino mi fa capire che è meglio stare calmo; faccio qualche domanda: mi risponde solo con uno sguardo gelido, di disgusto. Se ne va.
Potrei piantare un casino, ma perché? Buttare la busta, ma perché?
Mi fiondo nel bar del cinema Adriano. Trovo un tavolino libero, mi siedo, ordino una vodka e apro la busta.

"Sono la dottoressa Venturi, le scrivo da parte del Professore Orazio Olindo Olimpo Ognuno. 
Lei si chiama Alain Meltemi, nato a Roma l'8 marzo 1966. Vive con la madre e l'ex-domestica a via Cassia 553.
Non si mostri in giro, nessuno sa della sua presenza in città, ma diversi vicini si ricordano dei suoi funerali. Aspetti istruzioni senza fare problemi.
Il professore ha bisogno del suo aiuto. Qualcuno vuole fargli del male. Dall'incolumità del professore dipendono i benefici di cui  lei gode attualmente."

"MeVda di tVoia!" - urlo a bassa voce. Bei benefici!  Quasi come quelli che mi ha elargito Distruzione! In soldoni, però, vuol dire anche che se sgarro crepo. E questo professore da dove spunta fuori? Il nome, poi! OOOO... Mi ricorda qualcun altro. Tutto maiuscolo! Chissà se anche lui s'incazza se lo scrivono Oooo?

Torno a via Cassia. Il tempo sembra essersi fermato. Passo due giorni segregato in casa. I pasti - squisiti, Pina, quando non piange, cucina molto bene nonostante l'età - mi vengono portati in camera. Le ore scorrono lunghissime,  ma ho modo di fare ginnastica nel mio nuovo corpo. La sera faccio due passi nel giardino cintato. Ho la televisione, la musica, i  libri; cerco di rilassarmi.
Contattare il Pathos? esiste ancora il Pathos? Cosa succede di me se questo prof non gradisce? devo chiarire quali poteri ha su di me e cosa vuole. Sono in una prigione, una prigione senza sbarre, ma quel tipo di prigione che ci segue per sempre, la dipendenza da chi ci ha dato la vita. Peccato che io di vite ne ho una collezione!

La seconda notte dormo di mmmerda. E arrivano i sogni, sogni che non ricordo bene al mattino, ma che contribuiscono ad accrescere la mia confusione. Una sola, vaga sensazione: c'è di mezzo MOMM, sempre lui. E' una persecuzione.

La mattina del terzo giorno, Silvie, la bionda, "mamma", mi sveglia agitata. C'è posta per me.
Mi porge una lettera. Gliela sfilo di mano, poi apro la busta con rabbia, quasi strappando anche il foglio che c'è dentro
"Il professor Ognuno è ricercato da persone che vogliono nuocergli.
Per la sua situazione particolare lei ha l'incarico di aiutarci.
Si è reso necessario mandargli un messaggio con una staffetta - il suo compito è proteggere le spalle di questa staffetta.
Ovviamente lei non deve conoscere la staffetta  e la staffetta non sa di essere sotto la sua protezione. Riceverà armi e istruzioni in seguito.
La staffetta si muoverà nei prossimi giorni, a Roma, con i mezzi pubblici. Cosa può esserle utile? Telefoni a questo numero stasera alle 21:45 e detti le sue richieste a chi risponderà."

Pensavo peggio. Giocare a guardie e ladri. All'ora indicata, esco e cerco una cabina pubblica. Chiamo e detto alla voce anonima che mi risponde le mie istruzioni. Chiedo un giaccone da barca taglia XXL, usato, scarpe robuste, da montagna, un berretto da baschet, delle manette, tre paia, e altra robetta. E di nuovo spendo le ore nell'attesa. Ho il tempo di rimirarmi allo specchio. Beh, questo corpo è più vecchio di sei anni, rispetto al mio. Non è una gran bellezza E' pieno di difetti, parla con la erre moscia, zoppica ed è lievemente astigmatico. Ma ha un suo fascino, non c'è che dire. Da tutti i "cimeli" che ho potuto esaminare (oggetti, foto, lettere), ho capito molte cose di lui: Alain Meltemi  i vizi ce li ha tutti: Fuma Beve e Scopa come un animale. 

Il giorno dopo mi arrischio a pranzare con le vecchie. Una scena penosa, bisogna che si abituino. Passano il pasto a piangere e a sorridermi. Poche parole di circostanza, vuoi dell'altro pane?, è giusto di sale?, nessun dialogo. Un'ottima oca arrosto. Poi mi piazzo davanti al PC - un 486 - trovo DOOM. Mi lascio coinvolgere come un ragazzino. Avanzo, sparo, mi feriscono, trovo la pozione curaferite (ehi, mi torna in mente il mio potere. Lei mi aveva insegnato a usarlo ...lei ... lei ...chissà se ... dove ..BASTA ..altri tempi). Ora sparo con rabbia, faccio stragi, salgo ai livelli superiori, mi accanisco. Il tempo scorre via. Almeno mi distraggo.

Il pomeriggio del giorno successivo vengono a suonare al citofono. Silvie mi mette il cappotto e mi invita a uscire, un'auto mi aspetta nel vialetto, salgo dietro, nessuno mi vede. C'è un vetro separatore tra me e il conducente, che non risponde alle mie domande. Sul sedile posteriore una busta, una sacca in terra.

"Ha quello che ha chiesto nella sacca. L'autista ha ordine di portarla a via Cicerone, la riprenderà nel luogo in cui la lascia, stanotte alle nove. Al numero indicato c'è lo studio di due notai. In serata vedrà entrare un tipo assai male in arnese, un barbone (in allegato c'è una vecchia foto) sarà la staffetta che riceve le prime istruzioni, si stampi in testa la sua faccia e aspetti che esca. Poi aspetti di essere riportato a casa. Da domani aspetti in modo discreto a via Barletta, la staffetta entrerà uno di questi giorni al civico 22. Il portone è già controllato dai nostri nemici. La staffetta deve incontrarsi senza problemi con il professore. La missione è semplice. La segua e la copra.
Se il professore non riceverà le sue cose, la sua vita è in grave pericolo, signore."

La foto sembra presa da un vecchio documento, è inutile.
La sacca contiene le manette, le scarpe, la giacca, il berretto e una pistola. Prendo tutto.

La sera non è fredda. Non devo aspettare molto, il mio uomo per poco non viene cacciato dal portiere, esce dopo neanche mezz'ora, va a bersi qualcosa dai Professionisti. Fa una cosa che non era prevista: aspetta fuori e ferma una macchina che esce dal portone, scambia qualche parola al finestrino con l'occupante dei sedili posteriori, per poco, la macchina riparte cafona, forse voleva qualche dettaglio.
Questo provoca l'acuirsi di una sensazione strana che provi da un po'. A casa la sensazione si collega, nel mio metabolismo, con il mobile bar. Sono un forte bevitore e mi devo fare un cicchetto ogni tanto. Questo corpo è un po' un cesso, ma ha un suo fascino. L'ho già messo alla prova. A via Cicerone un paio di ragazze hanno attaccato discorso. E io sono stato al gioco, allungando gli occhi sulle tette vistose della bruna. Ho il fascino da artista maledetto. Mi sorprendo a fare le faccette allo specchio - sul maledetto poi, non ci piove...

In serata mi studio la pistola. Una 38. Rivoltella, modificata. Qualcuno ha accorciato la canna  e limato le sporgenze.
 


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