L’Apocalisse non è mai finita

Libera interpretazione e revisione a cura di Daniela Forni e Paola Urbinati

Master: Enrico Croce e Marco MOMM Lombardi
Primi Narratori: Matteo Turinetto, Marco il Tengu, Claudio Black
Arbitri: Yuri Artioli, Piermaria Maraziti, Stefano Raistlin


 
Parte Prima: L'incontro. 
 

L'auto che ha accompagnato il Nero si allontana rapidamente. Lui, solo, mentre si passa irrequieto una mano sui corti capelli biondi a spazzola, non può fare a meno di pensare alla trafila che ha dovuto patire per arrivare fin qua. In fondo è ben poca cosa rispetto alle traversie di cui è costellata la sua vita da quando ha conosciuto il Pathos. Un frammento dopo l'altro nel suo cuore ha preso forma la convinzione, la fede. Un passo dopo l’altro, la sua sete di conoscenza e di emozioni lo ha condotto fin qui. Un capannone. Un inizio anonimo per una Storia che potrebbe essere narrata nei secoli o terminare prima della sua conclusione. 

L'edificio di fronte a lui si trova in un'area industriale di Torino.
Osservando le costruzioni circostanti la crisi della Fiat assume un contorno molto realistico. Interi palazzi abbandonati a se stessi, resti di un potente complesso industriale. Alcune strutture sono state riadattate e il capannone che ha di fronte è una di queste. Le pesanti saracinesche per il carico-scarico delle merci sono chiuse, ma su un fianco dell'edificio una piccola porta di servizio è stata lasciata socchiusa. In lontananza un randagio abbaia.

Si avvicina con cautela. Tutti i controlli che ha passato gli hanno fatto capire che non si scherza, che qui si muore. Come se i recenti eventi non lo avessero sufficientemente provato. Mentre apre la porta un brivido leggero corre sulla sua schiena, e nella testa ha la distinta sensazione di aver fatto un passo verso l'ignoto.

Un breve corridoio chiuso da una porta a vetri lo separa dall'ingresso del capannone. Lo oltrepassa, ritrovandosi in un ambiente che avverte enorme. È male illuminato. Poche lampadine a molti metri di altezza. Ovunque, ammassati in pile altissime, libri. Di ogni forma e colore. Ammucchiati, ordinati, scatoloni di libri, container di libri.

La prima cosa che lo colpisce è l'odore. Polvere e carta. È un odore potente e insistente, che sembra avvolgerlo. La seconda cosa è il silenzio: l'enorme quantità di carta sembra assorbire i piccoli rumori che lo circondano.

Le scatole e le pile di libri sono disposte in maniera irrazionale, qua e là tra le varie colonne di scatole si aprono stretti corridoi. Non c'è alcuna forma di organizzazione, né nella disposizione dei libri, né in quella degli spazi lasciati liberi per il passaggio. Un labirinto di Carta: questa è la sensazione che ha del luogo.

Con passo cauto comincia a muoversi. Di tanto in tanto osserva i titoli e si accorge che non ci sono due copie uguali tra tutti quelli che vede. Sempre titoli diversi, in lingue diverse, in stili diversi. E pian piano, immerso nel silenzio del luogo, si accorge che il suo passo è diventato misurato e delicato, come quello di chi cammina in una cattedrale.

Il dedalo dei corridoi non lo disorienta, con qualche tentativo e un paio di vicoli ciechi riesce a dirigersi verso il centro. Da quel che può vedere, lì le colonne di libri sembrano più rade. L’intuizione è corretta, al centro del capannone si trova uno spazio sgombro, una specie di radura in una foresta di carta.

Ci sono già delle persone, ma la luce è scarsa e non riesce a distinguere i volti con precisione. Sente i loro sguardi su di sé, indagatori come il suo verso di loro. Sono i suoi Fratelli, nel Pathos e in questa Impresa.

Uno di loro siede su una pila di pallet. Lo riconosce. È Arthur Turant, il Maestro del Segreto di Destino. Altre persone sono sedute qui e là. Il silenzio è palpabile, come l'attesa.

Il Destinante lo saluta con un cenno del capo e un sorriso. Salta giù dai pallet e gli va incontro. Nella mano sinistra continua a giocherellare con quello che sembra essere un bisturi e il suo sguardo è fisso su di lui. Il giovane è cambiato parecchio dall'ultima volta che lo ha visto. Sembra più selvatico, forse è un’impressione data dai capelli lunghi e scompigliati, o forse sono i tatuaggi presenti sulle sue braccia. Non li ricorda, devono essere recenti. Al collo indossa una collana di foggia strana. Non è facile distinguerne i dettagli nella penombra, ma sembra simile a un pezzo di filo spinato.

- “Benvenuto Fratello. Stiamo attendendo che tutti ci raggiungano, accomodati dove vuoi”. -

La voce dell'irlandese non tradisce particolari emozioni, ma il sorriso lo lascia perplesso. Sembra quello di un cinico, di qualcuno che abbia visto troppo e che abbia preso una decisione in proposito.

Insieme al Maestro di Destino, seduti tra i cumuli di libri, ci sono anche due donne, un uomo dai capelli bianchi con un bastone appoggiato al suo fianco, e un giovane dall'aspetto dimesso, ma dallo sguardo intelligente. 

- “I Miei Fratelli in Destino” – aggiunge Arthur indicandoli – “Ma credo che tu alcuni li conosca e gli altri si presenteranno da soli”. 

“I miei compagni nella morte!”, pensa il Nero, mentre l’uomo dai capelli bianchi punta il bastone verso di lui e alza lo sguardo per salutarlo. 

“Non sempre la fama mi precede, e veramente non so quale sia esattamente… comunque sono Damien, Araldo Della prima nota di Destino”, dichiara calmo allungando la mano. 
Lo sguardo è giovane e vivace. Decisamente inadatto a quel corpo, pensi, ricambiando il saluto per concentrarti di nuovo sull’irlandese. Alzi le spalle e sorridi, poi l'occhio ti corre sul bisturi che si annoda, vivo, tra le dita dell’uomo. Soppesi il fatto, e l'accantoni. Una lieve brezza scivola leggera tra le stanche pagine di volumi oramai sconfitti dal tempo. Il loro rantolo: unico suono udibile. 

–“Marco Nero”- Le parole come macigni travolgono l'aria... – “tutto qua!”.
Per lui il discorso pare chiuso, per altri no.
“Ah, certo, mancava il cartellino di riconoscimento!”, aggiunge, con voce che tradisce un’ironia trattenuta e un forte accento veneto. – “Enigma”.
Si siede all'ombra di una grande catasta di carta, prende il primo libro che gli capita tra le mani. "La compagnia dei celestini". Ma non può fare a meno di guardare i presenti. 
Le due donne parlano piano. Quella alta, i lunghi capelli scuri e mossi, il fare rassicurante, potrebbe essere Patrizia. Ma la parola che gli sembra di cogliere a un tratto è del tutto fuori luogo. Eppure giurerebbe che è “shopping”.

Durante il breve scambio di battute qualcun altro è arrivato. Avanza. E quando arriva alla radura lascia cadere la giacca. Sorride.

Marco il Tengu è poco più che un ragazzino con capelli neri, il lungo ciuffo incasinato e la nuca rasata. Ha l'orecchio sinistro traforato di piercing. Sguardo di un verde brillante e carnagione tanto trasparente da lasciar intravedere in alcuni punti un reticolo di vene viola. Si muove fluido e preciso come un modello. Indossa uno smanicato nero aderentissimo tagliato in più punti e fermato da spille da balia. Pantaloni di gomma argentata stropicciati in fondo e pesanti anfibi slacciati di un metallo rovinato che un tempo forse brillava. I polsi sono fermati da due larghi bracciali di cuoio liscio. Unghie corte e laccate di nero.

Sulla spalla, si scorge un tatuaggio che rappresenta un sole e una luna stretti in un circolare abbraccio e rinchiusi in anelli concentrici di rune e iscrizioni antiche... se solo lo si osserva un istante però... si mostra per quello che è veramente: la cicatrice di una bruciatura, nitida e scura.

Anche i suoi occhi sorridono. “Ciao...”
Saluta i conoscenti. Sorride agli amici. Stringe forte la mano agli sconosciuti.
Tintinna giovane... e ingenuo per chi vuole crederlo. “Ci siamo quasi tutti. Quale miglior occasione...”

E quasi rispondendo a un richiamo, una delle due donne che hai visto poco dietro al Maestro del Segreto, intenta a parlare piano con l'altra, si interrompe, si volta a guardarlo. Non è molto alta e il profilo che offre alla scarsa luce dice a chi la osserva che è anche magra. Si fa un poco avanti: ora puoi notarne i capelli rossi, lisci ma ugualmente disordinati, l'espressione stanca e insieme decisa del volto, mentre tende a qualcuno la mano, con un sorriso appena accennato, lo sguardo verde diretto, la voce pacata: “Benvenuto. Daniela Spiranti”.
 
Forse ora ne capisci la magrezza, ricordi di un messaggio in cui scriveva di una malattia che ne aveva fiaccato le forze, mentre navigava incontro al cargo fantasma. O forse la morte di Croce. Ti scopri a pensare che la sua pelle tradisce ben poco tutto il sole che dovrebbe aver preso. Non ha un filo di trucco né ornamenti. Percepisci il tono sommessamente scherzoso, amichevole che ha nel rivolgersi al Tengu. Che le prende la mano stringendola forte. Poi le dita scorrono lungo il braccio delicatamente. Scivola in un abbraccio, contenuto nel gesto ma forte nella presa. Forte profumo di muschio. Le sottili dita pallide accarezzano i capelli rossi. 

Daniela non tenta nemmeno di nascondere un brivido: a voce bassa, aprendosi a un sorriso, pronuncia il nome di Marco, mentre ne ricambia l'abbraccio. Poi si discosta leggermente, così da poterlo guardare meglio. Le brillano gli occhi. “Quanto tempo, Figlio della Tessitrice...”. 
Ora ne scruta il volto. Si sorprende a cercare tracce di pianto. Sta per fare il nome di Black, ma trattiene la domanda dentro di sé. Questo ritorno così doloroso si colma all'improvviso di una sorta di dolcezza. Tracce delle parole scambiate con il Tengu, quell'amore e quella libertà che permeavano ogni suo discorso, la sua scelta in Destino, l'incontro alla villa di Ginevra. Era lì che aveva conosciuto Claudio. E adesso il ricordo netto dell'ostilità iniziale tra loro due la fa quasi sorridere. Esita, per paura che il Tengu le confermi quella morte a cui si ostina a non credere: e quando si decide a chiedere, la voce di un altro Marco la ferma, la chiama altrove.

“Sì, certo, il cargo!”. 
Il Nero sospira e si alza lentamente, con movimento calcolato. Un cenno di saluto a Daniela, e senza aspettare di ottenere l'attenzione di tutti comincia: “Alcuni di voi ne sono già a conoscenza, altri forse l'hanno saputo per altre vie, fatto sta che prima di iniziare vorrei sistemare una cosa. Sono stato contattato (ma non ho l'arroganza di credere di essere stato il solo) per gestire la compravendita di tre fratelli che non sono più tornati dalla gita balneare a cui ha partecipato Daniela” – non c'è scherno nella sua voce “Ma purtroppo ora qui non posso seguire la cosa, il ‘venditore’ dice che è una faccenda per cui MOMM si è impegnato! Non vuole essere contattato direttamente, né vuole che si faccia il suo nome. La merce corrisponde al nome di: Alessandra Dia di Discordia, Bart di Distruzione e Thomas di Sogno. Se avete qualcuno da delegare ‘fuori’ fate pure. Per mantenere i contatti usate il terminale a casa mia, spacciatevi per me, non vuole altri... -si accontenta di 1.000.000 EU a persona per il riscatto... strano!- 

Daniela si rende conto ora che, concentrata com'era nel salutare il Tengu, ha gettato uno sguardo appena all'arrivo di quella figura che si era subito seduta da una parte, in silenzio, dedicandosi a sfogliare uno dei libri della pila più vicina. 
“Marco Nero” – annuisce, mentre ne scandisce il nome – “Eri con me e con Black, qualche mese fa. Ci hai aiutato a salvare la vita di Croce”. Ne ascolta le parole iniziali sulla difensiva, temendo un'aggressività e un sarcasmo dei quali, però, non sembra esserci traccia. E quando sente pronunciare i tre nomi, la sua espressione è quasi sollevata. “Quindi sono vivi! Mi dai una buona notizia. Sulla nave non mi hanno permesso più di vederli e temevo il peggio”. Uno sguardo rapido a Sergej: non per sfuggire quello del Nero, ma quasi per comunicare anche a lui il sollievo che prova. “Eravamo in un porto del tutto sperduto e non sapevamo come proseguire, quando è arrivata quella nave 'provvidenziale'. Abbiamo discusso a lungo, prima di imbarcarci. Temevano potesse essere una trappola, più che un Segno del Destino...”, conclude con un sorriso amareggiato.

Il Tengu, intanto, si è allontanato piano, per appoggiarsi con rispetto a una pila di libri. Guarda dietro di sé, quasi aspettasse l'entrata di qualcuno. Lo stivale sinistro striscia sul pavimento tradendo impazienza.

Eppure non deve attendere molto. 

“Mi presento, il mio nome è Alberto Grandi, figlio di Psiche e Araldo dell'Assassino...”, poi salutando i vecchi conoscenti attende lo sviluppo degli avvenimenti. Alberto è un “ragazzo” grande e grosso, gli abiti comodi che ha ricevuto in seguito alla “visita medica” mettono in risalto una muscolatura notevole, ma il suo viso è come coperto da un velo di tristezza: la recente scomparsa di due suoi fratelli è ancora viva... ma per un attimo, un attimo soltanto, un bagliore strano compare nei suoi occhi... alcuni di voi forse sanno cos'è: la luce della rabbia. Il dolore e la rabbia che si porta dentro da troppo tempo ormai e che ha paura di scatenare.

Altri passi. Simonasky dà un saluto generale piuttosto sbrigativo, e qualche pacca sulla spalla di chi conosce meglio. Da molto è fuori dalle cose del Pathos. Una furia, una reazione, una delusione. Un girare in circolo senza costrutto, una sensazione da cent'anni di solitudine. I nervi che stavano per cedere. Il distacco è stato inevitabile, quasi naturale. Un respiro, un battito del cuore finalmente libero dall'ansia della battaglia.

“Ora eccomi qui. Cosa mi abbia fatto tornare, non saprei dirlo. Una suggestione implicita d'urgenza, una necessità definitiva. Non so. Eccomi qui”. 

Con l'espressione tra l'attento e il rassegnato, si siede su una pila di carta. Fisico prestante, carnagione olivastra, capello scuro. L'occhio chiaro e tagliente scruta i presenti. Chi è abituato a vederlo in barba fitta e scura, stenta quasi a riconoscere i lineamenti della pelle ben rasata. 

Accanto a lui qualcuno, anzi, qualcuna, sembra impaziente di parlare. Enkada.
È arrivata puntuale. Ha salutato quelli che conosce, poi gli altri, che le sono stati via via presentati. Quello che tutti notano, al di là del suo aspetto da studentessa (aria da brava ragazza, occhialini, capelli a caschetto), al di là del fatto che sembra terribilmente stanca, è che la sua figura è ammorbidita dagli inequivocabili segni della gravidanza. A giudicare a occhio dovrebbe essere ormai al termine. Lei sospira lievemente e cerca di non fare caso alle occhiate che le vengono lanciate. Si siede, con un colpo di tosse richiama l’attenzione: in mano ha un foglio. La stampa di una email. “Mi è arrivato questo, scusate se ne parlo ora, che non ci sono ancora tutti, ma prima risolviamo la questione meglio è”. Uno sguardo a sincerarsi di poter proseguire e la donna comincia a leggere quello che, vi dice, è un messaggio di Horus: 

“Bene, Maestro del Segreto di Discordia, più volte Mi hai ribadito il tuo Desiderio di aiutare Pathos, più volte Mi hai parlato del Deiscuri, benissimo, è Tempo di tramutare le parole in fatti, tu sei figlia del Maestro delle Torri, quindi so bene che non parli inutilmente, sto per colpire l'Assenza duramente è Tempo che i Signori dell'Abisso ricordino il terrore che all'epoca del Mito gli incuteva la grandezza dei 7 Signori delle Trame e della Loro Divina progenie, ho bisogno di un ingente numero di alterazioni per un potente Rituale, nessun piccolo Rito per scoprire Nomi veri o falsi o per trovare poveri resti offesi, no un Rituale che decreterà la fine di uno dei tre rimasti, le urla di quella empia cagna di Agrath risuoneranno per tutta la Rete mentre Io colpirò la sua essenza dilaniandola fino a farla smettere di esistere, ti chiedo che almeno due alterazioni di Discordia partecipino, se ne avessi di più meglio, se potesse venirne solo una meglio di niente, tu ora sei il Maestro del Segreto di Discordia, onori ed oneri, su te il peso delle scelte, Mi basta che siano disponibili per un giorno intero qui in Italia fra una decina di giorni, se Me le concederai e Me le indicherai, quando saremo pronti gli comunicherò con il Necessario anticipo luogo e data precisa...”

Quando finisce di leggere, vi scruta. Ma prima ancora che possa parlare risuona caustica la voce di Simonasky che, platealmente, sbircia il foglio: “Sono assolutamente certo di una cosa. Questo messaggio non può averlo scritto Horus. Ci sono solo tre puntini”.

Una risata lieve stempera la tensione che si è creata. Ma l’attenzione, subito, torna alla donna e alle sue parole: “L'idea che mi è venuta è questa: a noi serve energia per il nostro rituale. Energia che può essere fornita ad esempio dalle Note. Ma qualcuno mi ha detto che i demoni sono un po' le Note dell'Assenza. Se prendessimo da loro l'energia che ci serve?” Sorride. 

“La cosa è folle, lo so. Però pensateci un attimo. Arriviamo al rituale di Horus mentre lui sta tenendo Agrath, ci inseriamo nel suo rituale, assorbiamo l'energia, ci carichiamo e facciamo partire il traghetto... una specie di festa a sorpresa...” La frase è stupida ma l'espressione del volto seria. “So che sarà rischioso, non so neanche quanto sia fattibile. Volevo parlarne con voi. Io ho cercato l'energia che ci serve nel mio movimento, ma non è come sperava Croce. L'energia in cui confidava non c'è e le Note non mi danno il loro appoggio. Forse potrò trarne un po' facendo un rituale al nostro sacrario, ma nulla di più... “ La voce si spegne: vi osserva in silenzio.

Un silenzio che il Nero è il primo a spezzare: “A me l'idea piace, solo un dubbio: come? Serve un catalizzatore!”. 

La mano dell’irlandese su una spalla. Lo sguardo su Enkada, come a scusarsi dell’interruzione nella discussione appena avviata. “Non ora. Questa è una proposta da valutare con molta attenzione. E quando saremo tutti. Ne parleremo durante il viaggio”.

Un’ombra di disillusione. Enkada aveva buttato lì la sua idea appena possibile, con l'irruenza di una ragazzina che va in gita e propone di fare gli scherzi a un insegnante, per accorgersi subito dopo che forse aveva parlato troppo velocemente: ognuno era già concentrato sul viaggio che sarebbe stato intrapreso, sull'eredità lasciata dagli amici perduti, sui patti a cui tener fede. 

Si siede in un angolo. I suoi fratelli più cari non sono presenti, alcuni sono morti.

La voce di Turant ha riportato tutti alla precarietà del luogo in cui si trovano. Un punto di passaggio. L’inizio di qualcosa che li aspetta fuori di lì.
 

Parte Seconda: Il Traghetto Volante

L'atmosfera era altalenante, si passava da momenti estremamente densi ad altri piuttosto spiccioli. Una sofferta presentazione, un'analisi del sangue, un discorso sul destino dell'universo, una tratta di emphatici, e il tempo scorreva.

Non proprio rilassati, certo: ma nonostante tutte le palesi titubanze, il fatto di essere così tanti, di cui alcuni così sconosciuti, non riusciva a scalfire l'impressione magica di essere davvero per una volta sulla stessa barca.

Con motivi diversi. Con attitudini diverse. Con preoccupazioni diverse. 
Ma, alla fine, sulla stessa barca.

Ed era così, in modo altalenante, che i fatidici secondi nomi dei loro accompagnatori, Prudenza, Pazienza, Precisione, davano meno fastidio di quanto ne avrebbero dato in altro momento.
Soprattutto vista l'aria da purga staliniana che si respirava in quel periodo. Tutto sommato, ognuno sembrava a modo suo sincero e professionale, e di certo se quella fosse stata una trappola sarebbe già scattata da tempo. Forse era stata quest'ultima riflessione, timidamente affiorante qua e là nei discorsi di contorno, a diffondersi di più fra i presenti, quasi come un virus. E piano piano, la certezza che non fosse una trappola ma un viaggio comune rinsaldava molto gli animi. Per un po' qualcuno aveva temuto che il servizio di sicurezza imponesse anche con chi parlare e con chi no, quali posti prendere e via dicendo. E proprio mentre questa paura svaniva, ognuno si rese conto che era vicino a coloro con cui sentiva maggiore affinità. In realtà era strano, ed era più che altro una constatazione a posteriori: le piccole magie della vita quotidiana.

Così, fra un alto ed un basso, era stato fatto un rapido briefing. Tengu aveva preso da parte Simonasky e Rossi, avevano parlato qualche istante. Agli altri aveva spiegato a grandi linee che sebbene ancora qualcuno mancasse, presto la compagnia sarebbe stata al completo. Aveva anche fatto un lungo e ispirato discorso. Qualcuno aveva senza dubbio ripensato a quei film americani dove l'allenatore parla alla squadra fra un tempo e l'altro. 

La parte principale del discorso del ragazzo aveva colpito tutti. La sua voce tenue e un po' nasale, forse raffreddore, forse commozione, aveva per un secondo almeno toccato tutti i loro cuori con la forza della sua convinzione. 

-“Anche se a qualcuno potrà sembrare strano, il rituale è già iniziato” - aveva detto – “è iniziato quando vi siete visti la prima volta. È iniziato con le mani che si sfiorano, gli occhi che si incrociano, il profumo dei capelli mossi, i sorrisi, le paure”. 

“Eventi come questo sono epocali. Non ci saranno seconde possibilità. Non ci saranno altre chance, ed una cosa come quella che stiamo tentando non sarà mai rifatta da nessun altro, così come la notte a villa Lenzi è stata e sarà per sempre unica, indimenticabile. Quella notte sono state gettate le basi per una nuova leggenda. È quella leggenda che noi stiamo raccontando ora, e alla quale daremo il degno finale. Qualcosa si è chiuso allora, ma non del tutto. Qualcos'altro è iniziato, ma non del tutto. Quello che faremo è proprio superare una volta per tutte la transizione, finendo quello che può finire e iniziando quello che deve iniziare”.

“Se non ci ammazzano prima”, è l'asciutto commento che il Turant si lascia sfuggire a mezza voce.

Su quella frase e sulle parole del Tengu avevano avuto tutti molto da meditare. 
Parole così strane, misurate per quel ragazzo e per come si esprimeva di solito, forse se le era preparate. E comunque anche così erano cariche della stessa energia, emotività, dolce ed impetuosa che tutti gli conoscevano, chi più chi meno. Molti dei presenti erano stati all'Armageddon e sapevano bene ciò che lui voleva dire, altri ne avevano solo l'intuizione e proprio per questo riuscivano a vedere le cose in modo diverso. Ma tutti in qualche modo intuivano la sua urgenza di rivoluzione e di amore, la sofferenza di qualcuno a cui era stata rivelata la verità troppo presto, e questa verità gli aveva tolto ogni amore, ogni amante, ogni amico, uno dopo l'altro. L'innocenza perduta di Marco, però, ancora riverberava in Tengu, seppur in modo a volte morboso, irrequieto, scuro come le piume di un corvo. Riverberava nella sua ansia di tornare felice e spensierato, nelle labbra che fremevano di toccare con mano, provare, sondare ogni dono della vita, non lasciare strade intentate. Nelle mani che tremavano al ricordo delle persone e di quei due oggetti, al bisogno negato, dal mondo e da lui stesso, di ritrovarli ancora una volta su di sé.

Durante la notte, verso le 22:00, era arrivato l'ultimo. C'è una lista. Si è tutti in una lista. 
C’è stato modo di riposare e rifocillarsi. Qualcuno ha riempito, incerto tra l’ammirazione per la premurosa organizzazione e uno sbuffo di impazienza, l’ennesimo foglio specificando eventuali bisogni: diete particolari (vegetariani, kosher) bisogni medicinali (diabetici, allergici) gruppo sanguigno e altri dettagli medici. 
Qualcun altro ha mandato dei mex: una ragazza non bella ha preso i foglietti coi messaggi e li ha portati da qualche parte. Nessun aggeggio elettronico o elettrico, neanche il ghemboi. Non si può giocare con i giochini nei telefonini. Se qualcuno borbotta la ragazza non bella gli spiega che possono essere tracciati anche da spenti. Troppo pericoloso. Devono avere pazienza. "Pazienza" è il suo terzo nome.

Si preparano a un viaggio. Presto partiranno. Nulla, comunque, rispetto al viaggio interiore. Forse dovranno morire. Qualcosa muore e nasce ogni mattina. Lo sapranno all’alba. 

A mezzanotte e mezza vengono svegliati, salgono su un pulman di lusso. Senza che sia stato chiesto, c’è silenzio. Unica punta di vibrazione: passa una macchina veloce con le luci spente. L'occhio allenato vede che dentro chi si trova accanto al guidatore brandisce una carabina automatica AUG.
Hanno visori notturni binoculari.
Spariscono nella notte. Non succede nulla. 

Il pulman, preceduto da due auto di scorta, raggiunge un aeroporto secondario e viene lasciato entrare dopo un breve controllo di nomi e facce da un agente ignaro e assonnato.
Si scende. Breve trafila tra luci al neon. Qualcuno commenta: “Lo sapevo, si sta sempre a volare, neanche fossimo popstarrrr”.

Li portano con calma al velivolo.
Un elicottero. Grosso. Più ci si avvicina e più si ingrandisce. Non la smette di ingrandirsi, quando gli sono accanto e scendono dalla navetta viene loro da chiedersi se non li abbiano ridimensionati. Una voce di donna commenta: “No, ancora gli elicotteri di MOMM. Se c'è il pilota pazzo svizzero che fuma ascisc tutto il tempo, io non salgo!” 
Invece l'equipaggio dell'aeroflot sembra la famiglia Bradford dell'elitrasporto. Fanno grandi sorrisi e parlano l'inglese di Danko. Vengono distribuiti dei tappi per le orecchie, mascherine e tè.

In un gran sbattimento di pale l’elicottero decolla nella notte. Dai finestrini non si vede una ceppa marinara. Dormono. Parlano. Riflettono.

Non solo i discorsi del Tengu erano stati importanti. Qualcuno aveva fatto cenno alle morti eccellenti dell'ultimo periodo, la voce strozzata dell'araldo di Annibale ne era il più chiaro segno. E assieme alle pale degli elicotteri un sacco di pensieri frullavano nell'aria. Pensieri a volte un po' tetri, ma mai pessimisti. Ognuno di loro sapeva che quello era un momento di grandi mutamenti. Ognuno sapeva che la morte e la rinascita, a volte metaforica, a volte fisica, erano parte essenziale dei kalpa. Quella era una Legge Cosmica, ed in qualche modo anche il meno ferrato di metafisica fra loro lo intuiva benissimo, così come dai discorsi di Tengu si capiva che non per forza la morte fisica è quella più tragica. 

Fra tutte le cose dette, una rimase però sempre di sottofondo: mai nessuno ne aveva più parlato, perché tutti avevano capito. Quello non era un viaggio di piacere, non era una gita. Davvero il rituale era già iniziato. Si sentiva nell'aria. Si vedeva negli occhi. Lo sognavano ogni volta che si appisolavano.

Tengu era stato molto chiaro. Avrebbero percorso quattro tappe purificatrici.
Un pellegrinaggio. Le tappe erano collegate al ricorrere di certi epifenomeni, i fuochi di Gaia, gli elementi, le stagioni e la lista era proseguita a lungo. Anche lo spostamento non era un mero “andare a risucchiare” ma l'indispensabile preparativo, la molla da caricare, la rincorsa necessaria per riuscire a compiere un'impresa come la loro. Era palese che a quelle erano in qualche modo collegate anche le ultime volontà di qualcuno a cui lui teneva molto, ma non aveva risposto a nessuna delle domande in proposito.

Nel silenzio colmato solo dal continuo rollio delle pale dell’elicottero, anche l’irlandese ripensava alle parole di Tengu. Si era mosso con disinvoltura seguendo tutte le manovre di trasporto come se le conoscesse già. Ha chiacchierato qui e là, salutato vecchi amici e conoscenti. Dall'esterno è sembrato calmo come sempre, ma chi lo conosceva a fondo non poteva fare a meno di notare un'insofferenza di fondo, un'urgenza. Il Destinante a tratti sembrava un animale in gabbia. All’improvviso, sembra semplicemente riprendere un discorso interrotto.

- “Non dobbiamo farci illusioni. Il repulisti è ancora in atto e le mani di molti Fratelli sono sporche di sangue consanguineo. Ma in fondo è per porre fine anche a questo che siamo qui”. 

Senza rivolgersi direttamente a nessuno, parla per chi vuole sentire.

- “Tengu ha ragione. Stanotte abbiamo iniziato a Narrare una Leggenda. Una Leggenda che non verrà dimenticata facilmente, posto che resti qualcuno a ricordare. Non posso fare a meno di pensare che tutti noi si sia arrivati per strade diverse a questo luogo. Vite diverse, sia da ignari che da risvegliati. C'è da chiedersi che cosa ci tiene assieme e qui in questo volo. Chissà?”-

Poi la sua voce si fa più seria.

- “Il nostro cammino è iniziato, e come hanno già detto non sarà soltanto un cammino fisico. Ho solo un consiglio in proposito. Ciascuno di noi deve seguire le proprie emozioni, cominciare a divenire cosciente che egli stesso nel suo cuore è un Micro Pathos in Potenza, è il microcosmo in cui si riflette il macro cosmo. Questa è la verità. I Sette sono in ciascuno di noi, non separati, ma fusi nelle infinite sfumature che l'uomo può provare”. 

- “Chi ha conosciuto Erebo e ha sperimentato i suoi canali sa a cosa mi riferisco e conosce l'esperienza. Cercate di divenire un tutt'uno con la Narrazione. Ricordate l'Anomalia che ha reso questa realtà unica agli occhi delle note, dei sette, degli assoluti e di Bha. Ricordate l'Uomo Holisticus e cosa esso rappresenta”. 

Quando Arthur si avvicinò a Enkada per approfondire il discorso di Horus la donna fu felice di riprenderlo. “Come ho anticipato, Horus mi ha scritto per chiedermi di intervenire al suo rituale. Prima di venire qui gli ho risposto che sarei andata. Era una risposta per prendere tempo, ancora non so cosa farò. Quanto alla mia idea, è scaturita dal fatto che Croce confidava nel fatto che io potessi recuperare gran parte dell'energia di Discordia, per usarla per il nostro rituale. Non mi è stato possibile. Non so neanche dove sia mio padre... così mi è venuto in mente che potremmo sfruttare il rituale di Horus a nostro vantaggio, per acquistare energia prima del nostro rituale. Qualcuno ha parlato di un catalizzatore... cosa sarebbe? Le uniche incertezze sono quelle relative al rischio... potrebbe essere una trappola, o comunque potrebbe venirne fuori uno scontro...”

Daniela vede Paola per la prima volta. Non era andata all'incontro, alla fine. E ha nostalgia del mare di Rimini che aveva sognato di guardare, della spiaggia un po' triste e fredda d'inverno che aveva fantasticato. 
"Sì, Enkada, hai detto bene: il rischio".
Sull'esitazione della donna Daniela si inserisce, ne prosegue il discorso. "Il tuo è un piano talmente rischioso da risultare affascinante. Ma io credo che quello che stiamo per fare, anzi, quello che stiamo facendo sia talmente importante che non possiamo permetterci passi falsi. Non possiamo prestare il fianco". 

“Già. Mescolarci al rituale di Horus in un momento come questo, quando ogni cosa è stata calcolata con tanta precisione, mi sembra troppo rischioso. Ma proprio troppo”, aggiunge il Tengu.

Arthur aveva ascoltato il discorso della giovane donna e lo scambio di battute sul rituale di Horus senza intervenire. Era impressionato da Enkada. La forza di volontà che dimostrava. L'essere qui ora, nonostante le ferite e il bimbo. Era sicuramente una donna che meritava rispetto, capace di sopportare il suo Segreto.

Poi verso la conclusione del discorso aggiunse:

- “Io non credo che il rituale di Odhinn e Horus possa realmente portare il beneficio che loro gli attribuiscono. Odhinn e Horus attireranno Agrath in Okeanos, o meglio questo è quanto hanno dichiarato. Personalmente sono convinto che non esista più un luogo chiamato Okeanos. O per lo meno che Okeanos non sia quella che si aspettano le Note Desianti. Quando trascineranno Agrath al di là del portale credo che avranno una brutta sorpresa. I Guardiani fuggiti all'armageddon hanno avuto bisogno di ancorarsi alla rete, alla realtà, allo stesso modo delle note disforiche. Horus e Odhinn credono di essere in vantaggio per affrontare Agrath se la battaglia avverrà in Okeanos, cioè il luogo da cui traggono potere. Peccato che Okeanos non sia più e che al suo posto ci sia qualcosa che rende forti sia le Note che i Guardiani. Inoltre sono intenzionati a radunare più di trenta alterazioni, in un solo luogo, a conoscenza dei nemici del Pathos. Credete davvero che sia un buon affare? Io no”. 

Ha esposto la sua teoria con molta calma, e sembra in attesa di una qualche obiezione o risposta.

Falci di luce sezionano i volti degli astanti con fredda indifferenza; fuori il rumore di un aereo, dentro il gocciolare di una doccia antincendio. 
- “Arthur ha ragione!” – esclama il Nero – “Da come la vedo io ora i guardiani sono divenuti parte integrante di questa realtà, dal punto di vista metafisico stanno tentando una sostituzione con le note preesistenti, come Agrath ha fatto con Gilgamesh! Pensate solo all'albero sephirotico con tredici emanazioni, oramai si sono scavati una tana come vermi, e bevono lo stesso sangue della terra”.

“Sono d’accordo...” – dice Damien sbuffando il fumo che rimbalza sul finestrino – “forse la ‘sostituzione’ è già avvenuta in parte: chi è rimasto fra i Figli di Desiderio mi pare molto diverso da prima. Ormai non credo sia solo un'impressione...”

"No, non credo neanche io che sia un buon affare” – la voce di Enkada vi sorprende. 
“Era solo un'idea che volevo sottoporvi perché mi pareva potesse esserci un problema di quantitativo di energia per il rituale... e scusate se non uso i termini giusti... se non dobbiamo andare là ed è già tutto risolto per me è solo meglio. Speravo bocciaste la proposta". Sorride debolmente.

Di nuovo, l’irlandese sembra voler riprendere un discorso lasciato in sospeso. Si guarda intorno. L’eco di un “chissà” pronunciato qualche tempo prima aleggia ancora in lui.

Poi rivolto a tutti, ma in realtà più a se stesso che agli altri chiede...

- “Cos'è che ci ha portato qua? Perché ora sono cadute le barriere tra i Fratelli? Perché così tanti e con storie tanto diverse siamo imbarcati in questo viaggio? qualcuno di voi ha una risposta?”

E ancora una volta è il Nero a spezzare il silenzio: “Una sola parola: Entropia”.

“Rispondere: così è scritto, forse è banale...ma non essere certi di quello che succederà equivale a una pagina bianca… e noi la stiamo scrivendo, qualcuno deve rimanere per firmarla...” aggiunge Damien con una punta di ironia...

- “Le barriere esistono fra di noi solo se esistono dentro di noi”. – Bruno, seduto accanto a Simonasky, guarda fuori dal finestrino. – “Le persone di buona volontà finiscono per ritrovarsi, liberamente, e a collaborare per uno scopo comune senza che nessuno le abbia obbligate”.

I discorsi si affievoliscono. Ora possono cedere alla stanchezza. In sottofondo, il chiacchiericcio tenue di qualcuno che continua a discutere, invece di infastidire, dona un certo senso di sicurezza. 
La domanda di Arthur riecheggia: nel buio dietro gli occhi, a ognuno le sue risposte.

Sulle labbra, Daniela sente ancora il sapore di tè che le hanno offerto. Chiude gli occhi. Un brivido dolce la attraversa nel rivedere la scena. Sdraiato sull'ala di un mig un uomo le versa del tè, le chiede se abbia fatto buon viaggio. Sulle sue scapole, pensa, ora due cani si guardano, l'uno di fronte all'altro. Il coccodrillo, invece, si snoda lungo il suo addome e il pensiero le strappa una smorfia rapida, un sorriso agrodolce. La donna caucasica ha detto che il disegno se ne andrà, scolorirà da sé. Forse anche questi ricordi, ai quali manca il calore della pelle, il suono della voce. Forse.

Atterrano al mattino in un piccolo aeroporto. Un addetto che si era avvicinato troppo viene sbattuto per terra dal downwash del MI-26.

Ci sono dei pulmini mercedes marroni.

“Deutche sprache schwere?“

I pulmini partono dal piccolo aeroporto dopo avere dato tempo a tutti di salire con calma; il  viaggio si svolge in corteo distanziato.

C'è poco traffico. Stabiliscono senza dubbio di trovarsi in Germania.

Li sorpassano due motociclisti che indugiano dondolando contro i caschi integrali curiosi. Con uno strappo si allontanano, niente di strano: i motociclisti hanno tutti un qualche disturbo della personalità.

In silenzio, uno sguardo dubbioso ai due, Daniela si chiede se Claudio, mesi prima, sia passato di là durante le sue affannose ricerche. Il paesaggio scorre via, veloce...

Il parcheggio di quello che sembra un ristorante. Non c'è molta gente in giro. Nel ristorante solo il personale.

Mentre entrano per un brunch li sorvola un elicottero: questo di taglia normale.

Quando alza gli occhi, Daniela quasi si aspetta di scorgere un volto conosciuto. Non può essere, certo. Ma la memoria le restituisce vivido l'urlo asinino di un pilota che spera di reincontrare solo a terra. Non ce l'ha proprio fatta a tenere per sé la protesta, qualche ora prima.

Entra con gli altri nel ristorante.
 
 

 

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